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Si segnala la sentenza n. 20098 del 14 agosto 2017 con la quale la Corte di Cassazione si pronuncia sulla illegittimità del licenziamento di un lavoratore dipendente che, fruendo del congedo straordinario per assistere il padre disabile grave, non aveva fornito l'esatto domicilio in cui quest'ultimo dimorava stabilmente, bensì quello della propria casa vacanze (gestita dallo stesso lavoratore), situata in luogo diverso.

Nel caso di specie, la Cassazione rigetta il ricorso della Società datrice di lavoro avverso la sentenza della Corte di Appello che aveva annullato il licenziamento, con la reintegra del dipendente nel posto di lavoro e con la condanna al pagamento dell'indennità risarcitoria.

Dalla prova testimoniale era emerso che l'abituale residenza del padre era in altro luogo, dove abitava anche il figlio con la famiglia.

Ad avviso della Suprema Corte l'aver addebitato, da parte della Società, la mancata convivenza non comportava di per sé pure la contestazione della mancata assistenza, poiché in tal caso sarebbe stato necessario fornire maggiori precisazioni, tanto più che l'assistenza a un infermo non richiedeva in alcun modo la presenza costante e continuativa a fianco dello stesso (24 ore su 24), che la legge non prevedeva in alcun modo.

Pertanto, era fuori discussione che il comportamento effettivamente provato del lavoratore, ossia l'erronea formale indicazione del domicilio, potesse comportare una sanzione espulsiva, laddove tale condotta avrebbe potuto al più rientrare nella fattispecie di cui al contratto di riferimento che prevedeva la sanzione disciplinare della sospensione del servizio.

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Giovedì, 13 Luglio 2017 10:41

Limiti al licenziamento del lavoratore disabile

Il datore di lavoro può risolvere il rapporto di lavoro dei disabili assunti obbligatoriamente, nel caso di aggravamento delle condizioni di salute o di significative variazioni dell'organizzazione del lavoro, solo nel caso in cui la speciale Commissione integrata di cui alla legge n. 68/1999, accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all'interno dell'azienda, non essendo sufficiente il giudizio di non idoneità alla mansione specifica espresso dal medico competente ai sensi del D.Lgs. n. 81/2008.

Questo è il principio sancito dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10576/2017, che ha accolto il ricorso di un lavoratore disabile, licenziato dalla Società a seguito dell'aggravamento delle proprie condizioni di salute, dopo che il medico competente aveva accertato l'inidoneità alla mansione specifica in occasione di visita avvenuta ex art. 41 del D.Lgs. n. 81/2008.

Il lavoratore aveva impugnato il licenziamento per violazione della procedura prevista dalla legge in caso di disabili, con conseguente invalidità di un recesso comminato sulla base di un giudizio del medico dell'azienda "che non era deputato e competente in materia". La risoluzione del rapporto di lavoro del disabile può essere disposta solo "previo accertamento, da parte della stessa Commissione, della definitiva impossibilità di reinserimento del disabile", accertamento cui non può sostituirsi il datore di lavoro o il medico competente.

La Cassazione dà ragione al lavoratore. Ritiene che, ai sensi della legge n. 68/1999, spettava alla Commissione medica integrata prevista dall'art. 4 della legge n. 104/1992, eventualmente adita dal datore di lavoro accertare le condizioni di salute del disabile assunto obbligatoriamente per verificare se, a causa delle minorazioni o del loro aggravamento, potesse continuare ad essere utilizzato presso l'azienda. In caso di accertata incompatibilità il disabile avrebbe avuto diritto alla sospensione non retribuita del rapporto di lavoro fino a che l'incompatibilità persisteva. Solo nel caso in cui la commissione integrata avesse accertato la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all'interno dell'azienda, anche attuando i possibili adattamenti dell'organizzazione del lavoro, il rapporto di lavoro avrebbe potuto essere risolto.

"Tale percorso vincolato dalla legge – precisa la Suprema Corte - non può essere surrogato dal giudizio di inidoneità alla mansione espresso dal medico competente nell'ambito della sorveglianza sanitaria esercitata a mente del D.Lgs. n. 81/2008".

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La lavoratrice madre può essere licenziata solo per colpa grave, non essendo sufficiente una giusta causa di licenziamento prevista nel CCNL per ininterrotta e ingiustificata assenza dal lavoro.

Lo afferma la Corte di Cassazione con la sentenza n. 2004 del 26 gennaio 2017 ribadendo il seguente principio di diritto già espresso con la sentenza n. 19912/2011, per il quale: "il divieto di licenziamento della lavoratrice madre è reso inoperante, ai sensi dell'art. 3 lettera a) del d.lgs. 26 marzo 2001 n. 151, quando ricorra la colpa grave della lavoratrice, che non può ritenersi integrata dalla sussistenza di un giustificato motivo soggettivo, ovvero di una situazione prevista dalla contrattazione collettiva quale giusta causa idonea a legittimare la sanzione espulsiva, essendo invece necessario – in conformità a quanto stabilito nella sentenza della Corte costituzionale n. 61 del 1991 – verificare se sussista quella colpa specificamente prevista dalla suddetta norma e diversa, per l'indicato connotato di gravità, da quella prevista dalla disciplina pattizia per i generici casi d'inadempimento del lavoratore sanzionati con la risoluzione del rapporto. L'accertamento e la valutazione in concreto della prospettata colpa grave si risolve in un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, come tale non sindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione logicamente congrua e giuridicamente immune da vizi".

La vicenda, per la quale è stata chiamata a pronunciarsi la Cassazione, riguarda una lavoratrice, all'epoca dei fatti in gravidanza, alla quale il giudice di appello aveva confermato il licenziamento intimatole dal datore di lavoro per colpa grave, in quanto la condotta della dipendente era riconducibile all'ipotesi del CCNL che sanziona con il licenziamento per giusta causa "l'assenza arbitraria dal servizio superiore a sessanta giorni lavorativi consecutivi", integrando la fattispecie della colpa grave stabilita dall'art. 54, co.3, lettera a) del D.lg. n. 151/2001 quale causa di esclusione del divieto di licenziamento.

La Suprema Corte accoglie il ricorso della lavoratrice e cassa la sentenza impugnata, rinviando alla stessa Corte di appello la quale si atterrà al principio di diritto espresso.

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È nullo il licenziamento della lavoratrice madre durante il cosiddetto periodo protetto, in violazione dell'art. 54 del T.U. n. 151/2001.

Lo ribadisce la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 475 dell'11 gennaio 2017, ricordando che la giurisprudenza di legittimità è costante nell'affermare che il licenziamento intimato alla lavoratrice dall'inizio del periodo di gestazione sino al compimento di un anno di età del bambino è nullo e improduttivo di effetti ai sensi dell'art. 2 della legge 1204/71 (ora art. 54 del D.Lgs. 151/01).

"Per la qual cosa il rapporto deve ritenersi giuridicamente pendente ed il datore di lavoro inadempiente va condannato a riammettere la lavoratrice in servizio ed a pagarle tutti i danni derivanti dall'inadempimento in ragione del mancato guadagno.". La Cassazione accoglie così il ricorso di una lavoratrice, licenziata quando la figlia non aveva ancora compiuto un anno di età, ordinando all'azienda di riassumerla Il rapporto, nel caso in esame, va considerato come mai interrotto e la lavoratrice ha diritto alle retribuzioni dal giorno del licenziamento sino alla effettiva riammissione in servizio.

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Mercoledì, 05 Ottobre 2016 10:27

Licenziamento per uso improprio dei permessi L.104

È legittimo il licenziamento di una lavoratrice (dipendente comunale) per avere utilizzato i permessi di cui alla legge n. 104/1992 per finalità del tutto diverse dall'assistenza alla madre disabile, e specificamente per recarsi a frequentare le lezioni universitarie di un corso di laurea. Fatti che sono risultati dimostrati a seguito dell'attività di osservazione e pedinamento compiuta in quelle giornate.

Lo afferma la Corte di Cassazione la con sentenza n. 17968 del 13 settembre 2016, ribadendo ancora una volta il proprio orientamento sull'uso improprio di questi benefici lavorativi, e confermando la sentenza della corte di appello avverso la quale la lavoratrice era ricorsa.

In conclusione la Suprema Corte enuncia il seguente principio di diritto:

"In tema di esercizio del diritto di cui all'art. 33, comma 3, L. 104/92, la fruizione del permesso da parte del dipendente deve porsi in nesso causale diretto con lo svolgimento di un'attività identificabile come prestazione di assistenza in favore del disabile per il quale il beneficio è riconosciuto, in quanto la tutela offerta dalla norma non ha funzione meramente compensativa o di ristoro delle energie impiegate dal dipendente per un'assistenza comunque prestata. L'uso improprio del permesso può integrare, secondo le circostanze del caso, una grave violazione intenzionale degli obblighi gravanti sul dipendente, idonea a giustificare anche la sanzione espulsiva.".

Ricordiamo che possono fruire dei tre giorni di permesso mensile retribuito, coperto da contribuzione figurativa, i lavoratori dipendenti pubblici e privati, genitori di figli disabili gravi, nonché il coniuge, i parenti e gli affini di persone con grave disabilità entro il 2° grado e gli stessi lavoratori disabili.
I parenti o gli affini di terzo grado hanno diritto ai permessi lavorativi solo al sussistere di determinate condizioni.
I tre giorni di permesso mensile possono essere fruiti anche frazionabili in ore.

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