LA UIL E IL JOBS ACT
Superare il dualismo del mercato del lavoro, realmente.
I molti, troppi, interventi legislativi degli ultimi anni che tutti i governi, di tutti i colori, hanno deciso e approvato, hanno contribuito a produrre quello che tutti i lavoratori, specie i più giovani, conoscono: meno lavoro, contratti temporanei sempre più facili per le imprese, scarso contrasto alle finte collaborazioni e partite iva.
In questi mesi le aziende che assumono hanno scelto, grazie anche alle facilitazioni concesse dal Governo attuale, di assumere a termine alimentando, ancor di più, il bacino di coloro che non hanno stabilità di lavoro e di reddito.
Quindi il dualismo, o l'apartheid, sono stati soprattutto creati da chi, avendo potere legislativo, ha inteso affrontare il tema della ripresa e della competitività' delle imprese e del Paese operando più sulla "flessibilità" del lavoro che sulle deficienze del nostro sistema istituzionale, fiscale, infrastrutturale, in una economia in
gran parte inquinata dalla irregolarità e dal lavoro sommerso.
Il Governo continua a muoversi con questa logica: più contratti temporanei meno protezione a chi rischia di perdere il lavoro meno investimenti nella scuola,
nella formazione zero risorse sulle politiche attive del lavoro nessuna politica industriale zero azioni per le aree più deboli del Paese nessun contrasto alla perdita del potere di acquisto di lavoratori (a partire dal pubblico) e dei pensionati insufficiente
azione di contrasto agli sprechi e alla spesa improduttiva.
Il JOBS ACT, al di là delle belle intenzioni, non sembra invertire questa strada e, se cambiamento voleva rappresentare, non ci sembra una ciambella riuscita con il buco. Una delega scritta volutamente in forma ambigua.
E', quindi, fortemente critica la UIL sul JOBS ACT sia per il merito, ancora molto vago, delle proposte, sia per il metodo con cui si sta portando avanti l'ennesima riforma del mercato del lavoro.
Un metodo, che è anche sostanza, fondato sulla illusione che le norme sul lavoro possano adattarsi al nostro sistema produttivo senza la partecipazione
delle imprese e dei lavoratori.
Un processo di riforma, che è chiaramente finalizzato a creare una visione "univoca" del lavoro: quella del solo Governo, scordando, purtroppo, che i veri attori del mercato del lavoro sono da sempre le aziende ed i lavoratori stessi, anche attraverso i loro rappresentanti.
Sempre sul piano del metodo, altro anello debole di questo impianto riformatore è l'ideazione di una riforma "a doppio binario": un decreto legge immediatamente operativo spacciato per creare da subito occupazione (o per meglio dire....meno contenziosi!), rimettendo mano al contratto a tempo determinato e all'apprendistato, ed un disegno di legge delega che, con le necessarie tempistiche e passaggi parlamentari, riformi politiche attive, politiche passive e la flessibilità in entrata ed in uscita (art. 18 Statuto dei Lavoratori).
E' bene ricordare che all'inizio hanno raccontato che l'Italia avrebbe dovuto imitare il modello danese della flexicurity per diminuire l'alto tasso di disoccupazione. Oggi, pur senza abbandonare l'idea di quel modello, se ne aggiunge un altro: il modello tedesco delle Riforme Hartz.
Due modelli simili sul versante della liberalizzazione del mercato del lavoro attraverso un forte utilizzo della flessibilità, ma con un forte ancoraggio ad un sistema di politiche attive e di tutele sociali funzionante.
Modelli replicabili in Italia? Questa domanda ci dà lo spunto per spiegare cosa, nel merito, non ci convince del JOBS ACT.
QUALE FLESSIBILITA' IN ENTRATA ED IN USCITA?
Allo stato attuale, attraverso continui interventi normativi sulle tipologie di flessibilità in entrata, dei due modelli abbiamo importato solo la parte di più facile attuazione: la liberalizzazione e deregolamentazione del mercato del lavoro. Infatti, in Italia abbiamo raggiunto, nel I° semestre 2014, l'81% di
attivazioni con contratti flessibili (di cui il 68% con contratto a tempo determinato), al netto dei tirocini/stages e delle prestazioni lavorative con voucher (altre decine di migliaia di lavoratori deboli).
A proposito di quest'ultimo strumento di ingresso al lavoro, si tratta dell'alter ego dei c.d. "mini jobs" tedeschi, cioè uno strumento altamente precarizzante che in Germania ha raggiunto oltre 7 milioni di persone (il 25% di tutti i lavoratori subordinati tedeschi). I voucher, come i mini jobs, sono esentasse e la contribuzione è bassissima, con un danno per le future pensioni enorme.
In Italia, come è avvenuto in Germania, il Governo intende, attraverso il JOBS ACT, innalzare il compenso annuo percepito con i buoni lavoro, estendendoli a tutti i settori produttivi (ci verrebbe da chiedere quali settori sono esclusi, visto che sia il pubblico che tutto il privato può, attualmente, utilizzarli). L'innalzamento del compenso annuo,è sicuramente un modo per incentivare tale strumento, ma anche un modo per aumentare il dualismo del nostro mercato del lavoro,incrementando il numero di lavoratori privi di tutele (persino quella minima che ogni voucher corrisponda ad un periodo prefissato di lavoro). Una strada che la UIL giudica impercorribile!
Per ora, quindi, l'imitazione di questi due modelli europei, ha portato e rischia di portare ancor di più, in Italia, solo ad un incremento della disoccupazione che va di pari passo con l'aumento della flessibilità, più o meno buona, e alla forte riduzione dei contratti a tempo indeterminato e dell'apprendistato.
Ma allora che senso ha avuto destinare ingenti risorseper creare una "parvenza" di occupazione stabile? Ma soprattutto, gli incentivi che fino ad oggi sono stati messi in campo per creare occupazione stabile, hanno prodotto risultati? Non è dato sapere. E' inconfutabile il fatto che queste due buone tipologie contrattuali stiano perdendo terreno anno dopo anno.
Qualcuno potrebbe dire che l'attuale Governo punta a creare un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.
Se ne parla da anni di un contratto con questo nome. Ma come il Governo intenda attuarlo non è chiaro. Sembra che l'idea sia, sostanzialmente, quella
di un "periodo di prova" di 3 anni con il recesso "ad nutum" da parte del datore di lavoro, eventualmente con una semplice indennità economica in base
all'anzianità di servizio del lavoratore. Trascorso questo periodo, il lavoratore continuerà il rapporto a tempo indeterminato con le tutele dell'art. 18, compresa la reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo? Non è chiaro. Se cosi fosse, potrebbe essere una proposta interessante, a patto che non restino utilizzabili per le aziende, le altre, troppe, forme temporanee di assunzione che tanti danni hanno prodotto alle persone ed al nostro mercato del lavoro e
che, soprattutto, tornino ad essere esigibili le tutele.
Che convenienza avrebbe, infatti, il datore di lavoro, senza incentivi economici, ad assumere un lavoratore con contratto a tutele crescenti, quando può utilizzarne uno con Partita Iva, con collaborazione, con contratto a tempo determinato acausale o, meglio ancora, con i voucher?
Inoltre, occorrerebbe chiedersi: se l'intento è quello di eliminare un "peso" per l'azienda (quale il timore della reintegrazione al lavoro), quanti di questi contratti proseguiranno a tempo indeterminato oltre i 3 anni?
Se si tratta di modificare le procedure per arrivare a definire velocemente contenziosi su licenziamenti illegittimi va bene;come pure se si tratta di definire meglio le casistiche sulle "giuste cause"; altrettanto se si tratta di salvaguardare gli attuali occupati e di accrescere le tutele per chi oggi è fuori dal mondo del lavoro;
ma se si pensa solo di indebolire il lavoratore nei confronti di aziende che licenziano senza un motivo, noi non siamo e non saremo d'accordo.
Chi sostiene che in Italia è "impossibile" licenziare, diciamo di andarlo a chiedere ad uno dei 950.000 cittadini che hanno perso il lavoro per decisione aziendale (dati ufficiali Ministero del lavoro).
COMPENSO ORARIO MINIMO E DEMANSIONAMENTO
Un'altra "brillante" idea del Governo, contenuta nel DDL è quella di introdurre un "compenso orario minimo" per legge! Occorrerà capire bene cosa
bolle in pentola! Le poche righe contenute nel disegno di legge delega recitano così" introduzione, anche in via sperimentale,
di un compenso orario minimo, applicabile ai rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, nonché nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti collettivi...". Ci piacerebbe sapere quali settori non sono coperti dalla contrattazione collettiva!
Forse si pensa, proprio come avviene in altri Paesi europei, di introdurre trasversalmente ed in tutti i settori, per singole aziende o peggio per singoli lavoratori, un salario minimo generale definito dalla legge, con fortissime ricadute sulla contrattazione collettiva? Il risultato non sarebbe quello di dare qualcosa a tutti (perché già lo hanno), ma di spingere ad una riduzione del salario reale dei lavoratori dipendenti. C'è di più. Si vuole introdurre un compenso orario minimo anche per i collaboratori coordinati e continuativi? Allora perché escludere le Partite Iva piuttosto che gli associati in partecipazione con apporto di lavoro? Ma il contratto a tutele crescenti, come ci hanno in più salse esposto i rappresentanti del Governo, non doveva eliminare la cattiva flessibilità? La strada maestra sarebbe quella di
superare, appunto, queste figure "atipiche", a meno che non le si voglia realmente condurre verso una regolarità "contrattuale", così come è successo in
molti settori, garantendo a quelle lavoratrici e lavoratori tutele salariali e normative.
A proposito di indebolimento della contrattazione, è evidente che la revisione per LEGGE della disciplina delle mansioni (la cui modifica è già possibile oggi attraverso la contrattazione collettiva, soprattutto aziendale), può portare ad affidare, in maniera "unilaterale", alle imprese, la facoltà di modificare le mansioni del
singolo lavoratore, ovviamente al ribasso, con conseguente riduzione della professionalità e della retribuzione.
POLITICHE ATTIVE SERVIZI PER L'IMPIEGO
Il disegno di legge delega sembra essere, allo stato attuale, molto ambizioso negli obiettivi sbandierati, ma fumoso nei contenuti e per nulla chiaro nella attuazione concreta. Ciò preoccupa non poco la UIL anche perché, a fronte di questo bailamme di novità, continua a mancare ciò che distanzia realmente l'Italia dal resto dei Paesi che vorremmo imitare: efficaci politiche attive ed un efficace sistema di Servizi per il lavoro. E' facile immaginare che l'impianto, farraginoso, immaginato dal Governo su tali temi, rischierà di essere una bolla di sapone, se realizzate a "costo zero" come è scritto nel JOBS ACT.
Il JOBS ACT ha l'ambizione di completare il quadro delle politiche passive attraverso una profonda riforma in materia di servizi per il lavoro e delle
politiche attive, ma la complessità dell'intervento è testimoniata dalla estrema articolazione della delega la cuiattuazione richiede l'intervento di tre Ministeri e una intesa in sede di Conferenza permanente tra Stato e Regioni.
Un disegno complesso ed articolato che prevede la costituzione di una Agenzia Nazionale che riunisca al proprio interno le politiche attive e
quelle passive, che si scontra con la cronica mancanza di risorse e dovrà quindi essere realizzata utilizzando le risorse umane, finanziarie e strumentali già disponibili a legislazione vigente.
E' sinceramente difficile immaginare di raggiungere livelli di tutela simili a quelli della Germania disponendo di meno di un decimo delle risorse e senza immaginare un massiccio intervento di riqualificazione dei nostri operatori. In Italia, nei servizi per il lavoro ci sono 8.000 operatori, in Germania oltre 90.000 (dati Isfol- Ministero Lavoro).
AMMORTIZZATORI SOCIALI E PROTEZIONE PER I LAVORATORI
L'intervento sugli ammortizzatori sociali contenuto nel Disegno di Legge Delega, tocca sostanzialmente l'intero sistema di tutele: in caso di sospensione (cassa integrazione), riduzione dell'attività lavorativa, rescissione del contratto e conseguente disoccupazione involontaria.
Inoltre il JOBS ACT, sulla base di una scarna elencazione di criteri e principi ai quali si dovrà ispirare il legislatore, si propone a soli due anni di distanza dalla c.d. "Riforma Fornero" di realizzare un profondo riordino dell'intera disciplina degli ammortizzatori sociali, intervenendo su una materia che è ancora alle prese con una delicata fase transitoria.
In materia di ammortizzatori sociali, gli obiettivi dichiarati del legislatore sono: assicurare «tutele uniformi» in caso di disoccupazione, razionalizzare la normativa in materia di integrazione salariale.
Questi principi non sembrano discostarsi molto da quelli della precedente riforma ma, analizzando nel dettaglio i criteri indicati per la predisposizione dei Decreti Legislativi, l'orientamento del JOBS ACT prefigura una forte razionalizzazione (riduzione?) della Cassa Integrazione. Le caratteristiche appaiono a carattere prevalentemente "restrittivo" e, per certi versi, vengono anticipate dall'emanato Decreto Interministeriale di riordino della Cig in deroga, a partire dalla definizione di periodi più brevi di integrazione salariale e dal restringimento delle causali di accesso agli
strumenti. A proposito di Cassa Integrazione, è proprio il Governo a teorizzare l'apartheid ed il dualismo, quando per la concessione della Cassa in deroga pone
come condizione almeno un anno di anzianità in azienda, penalizzando i neo assunti.
In buona sostanza, sembra che la sbandierata universalizzazione degli interventi debba realizzarsi attraverso la rimodulazione delle quantità e delle durate degli strumenti oggi esistenti, in modo da estendere i benefici anche a chi oggi ne è escluso, ma riducendo drasticamente le prestazioni a chi
oggi ne usufruisce.
Tutto ciò, per una generica volontà di revisione dell'ambito di applicazione della Cassa Integrazione ordinaria e straordinaria e dei Fondi di Solidarietà Bilaterali, introdotti dalla Legge 92/12, con l'obiettivo di sostituire l'intervento della cassa in deroga.
Inoltre, anche accelerando al massimo il lavoro delle Commissioni, i contenuti del JOBS ACT avranno tempi di maturazione piuttosto lunghi. Dopo il
necessario via libera dei due rami del Parlamento, andranno, infatti, definiti i decreti delegati di attuazione dei principi generali oggi in discussione.
Tutto questo, quindi, non potrà influenzare il quadro giuridico oggi vigente, ma soprattutto non sarà utile a dare risposte alle tante emergenze occupazionali che nell'immediato trovano spesso come unica soluzione l'utilizzo degli ammortizzatori in deroga. E' bene ricordare che la tanto bistrattata Cassa
Integrazione (ricordiamo pagata da contributi di imprese e lavoratori) tutela, ogni anno e con varia intensità, oltre 1.400.000 cittadini italiani che lavorano in aziende oggetto di ristrutturazioni e riorganizzazioni.
Di segno opposto, invece, sono gli interventi in caso di disoccupazione. Al riguardo il JOBS ACT sembra porre maggiore enfasi ai trattamenti di disoccupazione involontaria con l'obiettivo di irrobustirne l'intervento.
Una «nuova Aspi», un sussidio unico, che omogeneizzi il trattamento ordinario e quello breve, lasciando, come unico riferimento per il calcolo
della durata del sussidio, l'anzianità lavorativa e la contribuzione effettivamente versata dal lavoratore.
La riduzione della Cassa Integrazione porta ad interrompere più velocemente il legame tra lavoratore ed azienda. Ciò è grave particolarmente
nelle fasi di ristrutturazione, e non ci pare possa essere controbilanciata con il previsto irrobustimento degli strumenti per tutelare la disoccupazione e dalla
estensione della tutela anche per i lavoratori con contratti di collaborazione.
Si pone, quindi, alla base del nuovo sistema di tutele per il reddito, non la tutela sul posto del lavoro, ma all'interno del mercato del
lavoro. Si tratta di uno schema sperimentato nel nord Europa che fonda il suo successo su un massiccio intervento delle politiche attive per l'occupazione. E' un impianto che non tiene conto, soprattutto in alcune aree del Paese, della cronica riduzione di domanda di lavoro da parte delle imprese, e che risulta essere assolutamente teorico, stante la già richiamata (non superabile secondo quanto previsto dal JOBS ACT stesso) carenza di risorse per le politiche attive del lavoro nel nostro Paese.
Su tutti questi temi del Disegno di legge delega, del JOBS ACT, la UIL chiede una discussione approfondita ed un confronto in modo che i contenuti
negativi possano essere corretti e quelli vaghi e fumosi possano essere precisati e si abbia il reale superamento del dualismo del mercato del lavoro in direzione dello sviluppo di una maggiore buona occupazione.
Settembre 2014