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Lunedì, 04 Febbraio 2019 10:04

Osservazione Quota 100 e reddito di cittadinanza per i dipendenti pubblici

SERVIZIO POLITICHE CONTRATTUALI DEL PUBBLICO IMPIEGO OSSERVAZIONI in merito al Decreto 4/19,
"Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni", relative ai Pubblici dipendenti
Il decreto, appena pubblicato in Gazzetta Ufficiale, purtroppo lascia alcune perplessità più volte da noi attenzionate e per la cui soluzione da tempo chiedevamo un incontro al Ministero della Funzione Pubblica per esprimere le nostre preoccupazioni e quindi le nostre proposte.


Con la presente nota vogliamo concentrarci su cosa cambierà o meno per i dipendenti pubblici.
È ovvio che fin dall'annuncio della c.d. quota 100 l'attenzione si sia rivolta all'annosa questione dell'erogazione del TFS/TFR del pubblico impiego. A situazione data, i pubblici scontano e continuano a scontare, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, l'aver avuto un datore di lavoro pubblico perché, a differenza degli altri settori, si trovano a dover aspettare anni per vedersi accreditare la propria liquidazione.
Ci troviamo quindi, ormai da tempo, di fronte a una chiara ed evidente discriminazione tra lavoratori, che lede pesantemente il diritto del dipendente a vedersi riconosciuta al termine della propria carriera quella quota di retribuzione accantonata nel tempo e maturata in tutti gli anni di servizio.


Ricordiamo sempre, infatti, che il TFR null'altro è che un importo economico accantonato mensilmente dal datore per essere corrisposto in modo differito al momento della cessazione del rapporto di lavoro. La logica sottesa a quest'istituto è quella di garantire al lavoratore una somma di denaro al momento della perdita dell'occupazione, per qualsivoglia motivo. Ricopre, pertanto, una funzione sociale, o meglio previdenziale, che ha un senso solo se operante al termine dell'esperienza lavorativa.
Cosa che ovviamente viene meno allorquando questa viene erogata anni dopo. Ebbene, in questi anni abbiamo assistito alla sistematica violazione, nel pubblico impiego, di questo principio radicato da decenni nel diritto del lavoro. Oggi con la c.d. quota 100, come temevamo e come avremmo voluto evitare, non ci troviamo di fronte a una soluzione definitiva del problema.
Difatti, salvo richiedere un'anticipazione di una quota parte del trattamento (fino a trentamila euro lordi), i cui costi sono proporzionalmente legati, per l'appunto, ai tempi di anticipo, i lavoratori pubblici che accederanno a quota 100, a differenza dei privati, avranno diritto a percepire la propria buona uscita solo al raggiungimento del diritto a pensione. Con ciò, il rischio concreto sarà quello di ottenere il proprio TFS, tenendo anche conto delle tempistiche di differimento come stabilite in finanziaria, fino a otto anni dopo la data di prepensionamento.


Se è pur vero che quota 100 permette, nei fatti, un'agevolazione nell'anticipazione della stessa rispetto ad oggi, si tratta pur sempre di farsi carico del pagamento di un emolumento a cui si ha pieno diritto e che viene invece normalmente e correttamente riconosciuto a tutti gli atri lavoratori, ovviamente senza costo alcuno.
Quota 100, come dichiarato dalla Ministra Bongiorno, ben potrebbe rappresentare uno strumento per incentivare il necessario ricambio generazionale ma solo a parità di condizioni tra tutti i
lavoratori e non di certo onerando ulteriormente un pubblico impiego su cui già tanto è pesato il quasi decennale blocco della contrattazione e delle carriere.
Andando oltre nell'analisi del decreto, si introduce un'altra differenziazione anche per quel che riguarda le finestre d'accesso all'istituto, ossia sei mesi per i dipendenti delle PP.AA. e tre per gli altri. Ciò non può giustificarsi con l'esigenza di garantire la continuità di servizi a cittadini e imprese e di programmare un ricambio generazionale che, dopo l'ennesimo rinvio dello sblocco del turn over, potrà avvenire solo a partire dal prossimo 15 novembre 2019.


In questo contesto, altro aspetto che suscita forti perplessità, e che riguarda solo i dipendenti pubblici, è quello della necessaria domanda di collocamento a riposo da presentarsi all'amministrazione di appartenenza con un preavviso di sei mesi per poter accedere al prepensionamento. Quello che ci domandiamo è se con questa disposizione di legge si sia superato quanto disposto dai contratti collettivi che prevedono tempi più ristretti per le dimissioni.
Questo è quello che ci verrebbe da pensare data la gerarchia delle fonti ma ciò, se così fosse, rappresenterebbe un netto superamento della contrattazione che mal si concilia con i principi del
Testo Unico del Pubblico Impiego come modificato a seguito dell'accordo del 30 novembre 2016.


Tra l'altro, l'ampia estensione temporale di questo preavviso dovrebbe, di conseguenza, permettere al lavoratore di poter revocare liberamente la sua domanda di quiescenza, possibilità, invece, che
non viene precisata nel testo. E ancora! Si segnala che per quel che riguarda la "riduzione dell'anzianità contributiva per l'accesso al pensionamento anticipato indipendente dall'età anagrafica" che ha comportato così la
soppressione dell'indicatore dell'aspettativa di vita (pari a cinque mesi per il 2019) attraverso l'introduzione, invece, di una finestra mobile pari a tre mesi dalla maturazione del requisito, si potrebbero presentare delle mancate coperture per questi tre mesi nel caso in cui gli enti decidessero di collocare in quiescenza il personale per via unilaterale al momento del raggiungimento del requisito ai sensi dell'art. 72, comma 11, del D.L. n. 112/08, convertito in legge n. 133/08 oppure ai sensi della circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri n. 2 del 19.02.2015. Talché il lavoratore si troverebbe senza né retribuzione né trattamento previdenziale.
Insomma persistono, da parte nostra, ancora delle preoccupazioni che rappresenteremo nella prossima fase di conversione per tentare di migliorare i contenuti del provvedimento.
Roma, 01.02.2019

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